עַל־כֵּ֭ן אֶמְאַ֣ס וְנִחַ֑מְתִּי עַל־עָפָ֥ר וָאֵֽפֶר׃
Di Elia Fiore (MA Oxon)
TRADUZIONI
Diodati: Perciò io riprovo ciò che ho detto, e me ne pento In su la polvere, ed in su la cenere.
Nuova Diodati: “…Perciò provo disgusto nei miei confronti e mi pento sulla polvere e sulla cenere»”.
Riveduta: “…Perciò mi ritratto, mi pento sulla polvere e sulla cenere»”.
Nuova Riveduta: “…Perciò mi ravvedo, mi pento sulla polvere e sulla cenere»”.
Riveduta 2020: “…Perciò mi ravvedo, mi pento sulla polvere e sulla cenere»”
C.E.I.: “Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere.”
Martini: “Per questo io accuso me stesso, e fo penitenza nella polvere, e nella cenere.”.
Edizioni Paoline: “Perciò mi ricredo e mi pento sulla polvere e sulla cenere”.
COMMENTO MORFOLOGICO
עַל־כֵּ֭ן
L’avverbio כֵּן unito alla preposizione עַל unisce due frasi che hanno un rapporto “causa – effetto” (cfr. Ge. 11:9; Nu 18:24). Il v.6 rappresenta quindi una conseguenza di quanto viene detto nel v.5.
אֶמְאַ֣ס
Secondo il lessico BDB(1), questo verbo (מָאַס) ha due possibili sensi: il primo è collegato con il concetto di “rifiutare”, “rigettare”, “disprezzare”; mentre il secondo è collegato con il concetto di “fluire”, “scorrere” che, secondo il BDB(1) è sempre usato al Niphal (passivo / riflessivo) – cfr. Giobbe 7:5.
In realtà questo verbo sembra essere usato con questo secondo senso anche nel Qal (attivo) – cfr. Giobbe 7:16
Morfologicamente il verbo presenta una diatesi attiva (Qal); mentre il suo aspetto è “imperfetto”, indicando così un’azione “non completa” indipendentemente dal suo posizionamento temporale (passato, presente o futuro).
וְ
Questa congiunzione, potrebbe avere due possibili funzioni:
Da un lato potrebbe essere considerata una “waw inversiva” (specialmente visto la presenta di un imperfetto nella frase precedente) la cui funzione sarebbe quella di trasformare l’aspetto “perfetto” del verbo a cui si abbina in aspetto “Imperfetto”.
D’altro canto potrebbe indicare “un’inferenza informale” o un “conseguenza”, implicando così che l’affermazione di Giobbe nella frase precedente non è solo un’intenzione o qualcosa che riguarda il futuro, ma è qualcosa che ha già iniziato ad aver luogo.
וְנִחַ֑מְתִּי
Questo verbo sembra trasmettere i seguenti concetti: “spiacere”, “soffrire dolore”, “consolarsi” o “essere consolati”, “essere sollevati”, “facilitare se stessi”.
Morfologicamente questo verbo è un Niphal. Forma verbale che esprime una diatesi che può essere passiva o riflessiva. La morfologia di questo verbo sembra esprimere un messaggio multidimensionale: “Sono stato fatto soffrire” (Passivo – Per esprimere la causa del suo “scioglimento”) e “Soffro” (Riflessivo – Per esprimere il risultato del suo scioglimento, almeno fino al momento della sua dichiarazione)
L’aspetto di questo verbo (da un punto di vista puramente morfologico) è “Perfetto” indicando, di per sé, un’azione “completa”, indipendentemente dal suo posizionamento temporale (passato, presente o futuro).
Vedasi nota sopra su וְ
עָפָר
Nome comune maschile che può essere tradotto con “terra secca”, “polvere”.
אֵ֫פֶר
Nome comune maschile che può essere tradotto con “cenere”.
RIFLESSIONE
Le traduzioni sopra indicate sembrano favorire il primo possibile senso attribuito al verbo מָאַס lasciando quindi intendere che questo verso descriva una “conversione” da parte di Giobbe dovuta ad una sorta di confronto tra lui e Dio in qui quest’Ultimo ha avuto la meglio.
Leggendo però con attenzione il testo, tenendo conto di quanto sopra descritto, sembra proprio che questo verso non descriva il culmine di un conflitto ìmpari tra Dio e Giobbe, in cui quest’ultimo viene piegato e “convinto” attraverso una serie di sofferenze alle quali Dio permette che Giobbe venga sottoposto senza che egli se ne possa sottrarre.
Il verso descrive piuttosto una meravigliosa esclamazione liberatoria da parte di Giobbe il quale ha finalmente compreso la vera ragione dietro a tutta questa sofferenza. A questo proposito è interessante notare che l’aspetto di entrambi i verbi fa pensare che questa esclamazione Giobbe la fece mentre era ancora sofferente.
E’ stato sopra puntualizzato che questa frase è concettualmente legata alla precedente da un rapporto di “causa – effetto” generato da עַל־כֵּ֭ן .
Quanto detto in questa frase rappresenta, quindi, la conseguenza di quanto detto nella frase precedente (v.5) e può essere tradotto in italiano con “ecco perché…”.
Parafrasando, il concetto espresso è il seguente: “Ecco perché ho sofferto! Affinché potessi vedere l’Eterno”, cioè “…La mia sofferenza è parte integrante del mio processo di conoscenza di Dio”.
Il testo biblico non trasmette il concetto che per conoscere il Dio della Bibbia bisogna soffrire; esprime piuttosto il concetto che il processo di conoscenza del Dio della Bibbia può includere la sofferenza che può diventare parte integrante di questo processo non in quanto “agente” (causa della conoscenza), ma in quanto “strumento” (canale attraverso il quale la conoscenza viene impartita).
Giobbe ha finalmente capito il senso di tutto quanto ha dovuto passare. Tutta questa sofferenza non lo ha impoverito, ma lo ha arricchito; gli ha permesso di vedere (conoscere per esperienza) il suo Dio tanto da poter esclamare “Il mio orecchio aveva sentito parlare di Te, ma ora l’occhio mio ti ha visto” (v.5).
La traduzione proposta è quindi la seguente:
“… Il mio orecchio aveva sentito parlare di te, ma ora l’occhio mio ti ha visto…” (v.5)
“… Ecco perché mi sciolgo e soffro nella polvere e nella cenere”. (v.6)
Giobbe ha finalmente compreso un concetto fondamentale: proprio come una candela che bruciando si scioglie, ma fa luce a sé e agli altri che le sono vicino; così è chi soffre, ma che ha instaurato con il Dio della Bibbia un rapporto personale di amore.
Questa acquisita consapevolezza dava improvvisamente un senso a tutto, facendogli veramente capire che, di fatto, non aveva perso nulla. Giobbe aveva finalmente capito che quanto aveva “speso” non rappresentava un “costo”, ma un “investimento”. La sofferenza può “separare” colui che ama il Dio della Bibbia da qualcuno o da qualcosa, ma questa “separazione” (“spesa”) non è fine a se stessa, non rappresenta l’erosione di parte del suo patrimonio (“costo”); ma rappresenta la “trasformazione” (“investimento”) di parte del patrimonio di chi ha con il Dio della Bibbia un rapporto personale di amore, diventando il seme che produrrà il bene più grande: “la conoscenza di Dio”.
Questa acquisita consapevolezza dava improvvisamente un senso a tutto, facendogli veramente capire anche quanto lui fosse amato, e quanto lui si potesse fidare di questo Dio di cui prima aveva solo sentito parlare, ma che adesso aveva visto; tanto da poter esclamare con assoluta fiducia: “…Insegnami!” (v.4).
Colpisce vedere come ciò che Giobbe comprende sia in perfetta armonia con un importante concetto espresso in tutta la Bibbia: l’amore di Dio non si manifesta né si sperimenta principalmente o necessariamente attraverso le cose che ci fanno piacere, ma attraverso cose che ci permettono di “conoscere”, di “vedere” (nel senso di sperimentare) il Dio invisibile: YHWH (E’ interessante ricordare che Gesù stesso è venuto per mostrarci il Padre – Giovanni 14:9).
Questo è un messaggio espresso chiaramente anche nel Nuovo Testamento. In Romani 8:28 leggiamo in fatti: “Or sappiamo che tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio” (Nuova Riveduta).
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(1) Francis Brown, Samuel Rolles Driver, and Charles Augustus Briggs, Enhanced Brown-Driver-Briggs Hebrew and English Lexicon (Oxford: Clarendon Press, 1977)